Ascàs (v. rifl.): verbo dal significato intermedio tra “aver voglia di” e “degnarsi di” fare qualcosa; usato quasi esclusivamente in frasi negative, es.: “g’ó de netà fò cà, ma ncö ma àsche mìa”, “devo pulire casa, ma oggi non mi va”.

Borfadèl (sost. m.): polenta di farina di mais di consistenza cremosa, da mangiare al cucchiaio, servita affogata nel latte freddo, oppure cosparsa di zucchero e affogata nel vino rosso, oppure ancora condita con parmigiano e burro fuso. Il nome è usato più spesso al plurale, “borfadèi”.

Domà (avv.): appena, soltanto.
Da non confondere con il quasi omofono “ndomà” che invece significa “domani”. Si narra di un bergamasco che, volendo rispondere in buon italiano a un forestiero che gli chiedeva dove fosse suo fratello, rispose “era qui domani adesso” per “al ìa ché domà adèss”.

Dré (avv.): dietro.
“Is dré a + infinito” è la costruzione con cui si rende una frase progressiva, di quelle che in italiano si rendono con “stare + gerundio”. È analoga nel senso e nell’uso all’ “en train de + infinito” del francese. “Só dré a ndà”: “sto andando”. Come risposta breve “só dré” significa “lo sto facendo”, per dire invece “sono dietro” come avverbio di luogo si usa “só de dré”.

(sost. m. s.): viene chiamato con questo termine il sapore che resta o si ripropone in bocca a seguito di un pasto pesante, di una digestione difficile o di un fegato affaticato. “Al ma é sö’l fà de pierù”, “mi torna su il sapore di peperone”.

Fèta (sost. f. s.): fetta.
“Dà öna fèta”, “dare una fetta”, è un’espressione idiomatica che significa stancare, annoiare, infastidire. “Al mé n’a dacc öna fèta”, “mi ha annoiato molto”.

Gènder (sost. m. s.): genero.
A differenza di quanto sostengano alcune correnti religiose, in bergamasco “ol gènder” è un componente fondamentale della famiglia tradizionale.

(nota di fonetica: la “g” dolce è generalmente più dolce di quanto non sia in italiano, somiglia più a una “j” francese e, in alcune zone, diventa persino una “z” sonora).

Lòt (sost. m.s.): lotto, lotteria.
“Al vèghe al lòt”, “lo vedo al lotto”, è un’espressione idiomatica usata per descrivere una cosa posta in posizione precaria, sul punto di cadere o di rompersi.

(v. int.): bisogna, si deve.
Analogo nel senso e nell’uso all’“il faut” del francese. Da pronunciare con la “è” aperta, dato che “mé” (con la “é” chiusa) significa “io”. Spesso usato al condizionale, “merès” (si dovrebbe), è un’invito garbato a compiere un’azione o a svolgere un compito a lungo rimandato.

Menacó (sost. m. s.): girino.
“Có”, con la “ó” chiusa, significa “testa”. Il girino della rana sembra portare (“menà”) continuamente la sua grossa testa da una parte all’altra, il suo nome bergamasco deriva da questo movimento.

Menemà (avv.): in quel mentre, in quel momento, proprio allora.
“Sìe dré a ndà a laurà, menemà ‘l’è tecàt a fiocà” (stavo andando a lavorare, e in quel momento è iniziato a nevicare).

Ncorladüra (sost. f. s.): è l’indolenzimento o il dolore muscolare diffuso che si avverte dopo un’insolita attività fisica che comporta l’accumulo di acido lattico nei muscoli. “Ncorlà” è il verbo usato per descrivere il trovarsi in quella condizione. “Ger só ndacc a caminà e adess g’o i gambe ncorlàde”, “ieri sono andato a camminare e ora ho le gambe indolenzite”.

Panàda (sost. f. s.): zuppa preparata ammollando in acqua o brodo leggero del pane vecchio, successivamente cotta aggiungendo un uovo e mescolando fino ad ottenere una crema omogenea. È chiamata “patrìt” la variante che prevede l’uso di pan grattato al posto del pane vecchio.

Pòta (int. inv.): è l’intercalare con cui in bergamasco si esprime il senso di rassegnazione davanti all’inevitabile, la constatazione che è così che va il mondo, che occorre pazienza (più lunga la “ò”, maggiore la pazienza). Se Douglas Adams fosse stato bergamasco, “pòta” sarebbe stata la Risposta, e non “42”.

Sigér (sost. m. s.): lavello, lavandino della cucina.
Il termine viene usato anche in senso scherzoso per definire una persona ingorda a tavola, specialmente se disposta a scofanarsi quel cibo che altrimenti resterebbe come avanzo. “To set pròpe ö sigér”, “sei davvero ingordo”.

Sömelgà (v. int.): verbo impersonale. Usato alla terza persona singolare maschile, “al sömèlga” descrive la situazione che si verifica quando vedi i lampi e senti i tuoni di un temporale vicino, ma ancora non sta piovendo.

Spèll (sost. m.): zoccolo, preferibilmente di quelli di legno, pesanti, tipo Dr. Scholl’s.
“I put a spell on you, because you’re mine” non significa quello che avete sempre creduto.

Stretép (sost. s. m.): nubifragio, temporale violento, con vento e grandine.
“Tép” è “tempo”, come in italiano sia in senso meteorologico che fisico-filosofico. Il prefisso “stre-“ corrisponde al prefisso accrescitivo italiano “stra-“.

Strigòzz (sost. s. m.): cencio, straccio.
Per estensione, “striguzzù” è il vagabondo cencioso e il verbo “strigozzà” è il vagabondare senza scopo.

Ternegà (v. intr.): odorare intensamente.
Il verbo ha un’accezione piuttosto negativa e si usa quando l’odore - non necessariamente cattivo - risulta tanto intenso da dare fastidio. “La gh’ìa adòss tat de chèl pröföm, che la ternegàa”, “aveva addosso tanto di quel profumo, che dava fastidio”.