Ero a Mosca il giorno in cui i generali occuparono il Cremlino e misero agli arresti Gorbačëv. Avevamo trascorso la notte precedente in casa di parenti di Katja, a Zelenograd e la mattina rientravamo in città in autobus. All’incrocio dell’autostrada proveniente da San Pietroburgo (allora ancora Leningrado) con la tangenziale anulare di Mosca, già notammo i primi posti di blocco. Giunti a casa, Dima ci diede la notizia: “Žan, è un momento storico, hanno cacciato Gorbačëv!”. E subito, curiosi e incoscienti, prendiamo il metrò e ce ne andiamo verso il centro città.

Il Cremlino era irraggiungibile. All’altezza dell’ufficio centrale delle poste, sull’odierna via Tver’skaja c’era il blocco formato dai carri armati. Le fotografie le ha scattate Katja con la sua Zenit a pellicola in bianco e nero, con sua madre che, preoccupata, continuava a dirle di smetterla prima di cacciarsi in qualche guaio.

Pericoli immediati non pareva che ce ne fossero in quel momento. I moscoviti cercavano di parlare coi soldati - molti volti dai tratti asiatici - e non c’era particolare tensione. Più esternamente, sulla circonvallazione interna del Sadovoe Kol’co, barricate di tram messi di traverso e cassonetti di spazzatura rovesciati impedivano l’accesso alle auto.

Il colpo di stato durerà soltanto due giorni. I generali si ritireranno e il potere verrà assunto da El’cin. Nelle sue mani, quella che con Gorbačëv cercava di essere una discesa controllata, diventerà una caduta libera.

Carri armati che chiudono uno degli accessi stradali al centro di Mosca, folla di persone