La convocazione è per le 11. Un po’ intimorito - è la prima volta - arrivo mezz’ora prima. Mi faccio registrare, mi siedo sulla penultima panca in fondo e aspetto di venir chiamato. Qualcuno sta testimoniando quanto un aggressore fosse ubriaco, quanto la sua voce, i suoi gesti violenti, le sue parole spezzate ne palesassero l’alterazione. Poi è la volta di una donna che si vedrà inflitta ammenda, pena, requisizione della patente, ritiro dell’auto.

Poi tocca a un agente che testimonia di un’ispezione fatta ad uno stabile che avrebbe dovuto essere in costruzione, ma che invece era già finito, rifinito e abitato.

Poi tocca a un testimone di una rissa in cui ha fatto da paciere.

Poi tocca ai dirigenti di una griffe che si fa confezionare le ciabattine in Thailandia.

Tutto e il contrario di tutto. Ventinove procedimenti penali a ruolo, quel giorno in quell’aula, che distribuiti sulle otto ore di lavoro fanno circa quindici minuti ciascuno. Quindici minuti per riprendere le fila di discorsi iniziati anni prima, cercare di raccapezzarcisi, fare forse un passo avanti o capire che non si può procedere perché manca qualcuno degli attori e stabilire che la prossima udienza sarà tra quasi un anno. E in un qualche caso arrivare anche a una sentenza.

Poi, dopo le 14, tocca a me. Ma non se ne fa nulla; il difensore, dice il certificato medico, sta lottando contro la gastroenterite.

Non fosse che abito a seicento chilometri di distanza dal tribunale, sarebbe stata anche un’esperienza illuminante.