È un tardo pomeriggio di fine aprile 1991. Siamo appena arrivati a Stettino, sono in coda davanti ad uno sportello di cambiavalute per procurarmi un po’ di valuta locale per cenare. La coda davanti a me è di polacchi, che cambiano zloty in marchi tedeschi. Tocca a me, porgo una banconota da 50 marchi e - non senza un po’ di sorpresa - ritiro due mazzette di banconote più un altro pacco di banconote assortite di tagli inferiori. È così tanta roba che non so dove metterla. E capisco perché i polacchi davanti a me facevano l’operazione inversa: mettono il loro denaro al riparo da una superinflazione che si sta mangiando il potere d’acquisto di tutte quelle ingombranti banconote di ora in ora.

Se tornassimo alla lira, credo che lo scenario sarebbe molto simile. Con una nuova lira, nel giro di meno di un anno tutti i risparmi ancora esistenti degli italiani si incenerirebbero nel divampare di una superinflazione che trasformerebbe presto la lira in poco più che cartaccia. Sarebbe di fatto un prestito forzoso di ricchezza, che finirebbe bruciata rapidamente. Un po’ come è successo in tutti i paesi dell’Europa orientale in quegli anni.

Tornare alla lira avrebbe senso se avessimo una forte autonomia energetica (e non dovessimo acquistare petrolio e metano sui mercati esteri) e se avessimo una gestione almeno decente della spesa pubblica. Non credo che queste due condizioni si realizzeranno tanto presto. Fino ad allora, preferisco il pesante ombrello della BCE a una tempesta per la quale non sembriamo granché attrezzati.